Ogni giorno tutti noi formuliamo messaggi finalizzati alla persuasione degli altri. Pensiamo solo alle centinaia di e-mail e messaggi che inviamo a colleghi, amici o clienti. O semplicemente alle interazioni quotidiane che abbiamo con i nostri familiari o il nostro partner.
È innegabile che quotidianamente cerchiamo di convincere i nostri interlocutori della validità delle nostre parole e delle nostre azioni. Chi lavora nel mondo del marketing sa bene come l’ideazione di un messaggio pubblicitario, la realizzazione di una pagina web, di un video aziendale o delle semplici slide di presentazione, siano attività finalizzate alla persuasione che richiedono un discreto sforzo cognitivo e un investimento di denaro.
Ma questi tentativi di persuasione, quanto sono efficaci realmente? Quanta attenzione riusciamo a suscitare davvero? Quali probabilità abbiamo di modificare convinzioni e opinioni già strutturate? Siamo davvero in grado di innescare la propensione all’acquisto nel cervello del nostro target?
Indice dei contenuti
Neuromarketing e teorie della persuasione
L’applicazione delle neuroscienze al marketing, il Neuromarketing per l’appunto, è in grado di raccogliere dati sul cervello per scoprire come mai alcuni messaggi persuasivi funzionano, e tanti altri invece no. I dati relativi al funzionamento cerebrale sono complessi, ma negli ultimi vent’anni sono stato compiuti passi da gigante nell’analizzare i meccanismi che elaborano gli stimoli presentati dal marketing e dalla pubblicità.
In passato, nella valutazione sull’impatto dei messaggi persuasivi, si faceva riferimento esclusivamente alle teorie della persuasione. Una teoria della persuasione è un modello che punta a spiegare e prevedere la probabilità che un messaggio possa influenzare e convincere il ricevente. Questi modelli della persuasione sono stati, e sono tuttora, utilizzati come supporto nella creazione di messaggi e nell’affrontare in modo più sistematico lo sviluppo di una narrazione persuasiva.
Spesso queste teorie possono generare confusione e molte si contraddicono l’una con l’altra, e sebbene molti di questi modelli vengano citati da decenni, vi sono scarse prove della loro reale efficacia.
Nei prossimi paragrafi andremo a scoprire assieme alcuni dei modelli della persuasione più popolari degli ultimi quarant’anni e capiremo perché spesso c’è confusione e discordia tra i ricercatori che si occupano di questa materia. Infine andremo a vedere perché i nuovi modelli neurocognitivi adottati dal Neuromarketing offrono la possibilità di creare e mettere a punto messaggi pubblicitari più efficaci.
Il modello delle probabilità di elaborazione
Questo modello, derivante dal movimento della psicologia cognitiva, sostiene che un messaggio persuasivo innesca una successione logica di processi mentali che vanno ad attivare un percorso centrale (cognitivo), oppure un percorso periferico (emotivo).
Se il messaggio innesca l’attivazione del percorso centrale, significa che viene elaborato a livello cognitivo, ottenendo così il suo intento persuasivo. Se il messaggio innesca l’attivazione del percorso periferico invece, l’effetto sarà lieve perché non verrà elaborato cognitivamente ma bensì sulla base di processi emotivi. Questi processi di elaborazione emotivi vengono considerati da questo modello come superficiali e scarsamente rilevanti a livello personale.
Quindi, in base a questa teoria, un messaggio è valido solo se si rivolge ad un livello profondo e personale, innescando dei processi di elaborazione di tipo cognitivo. È per questo che i sostenitori di questo modello sostengono che un messaggio efficace deve includere prove convincenti in favore della credibilità delle affermazioni usate, proprio per stimolare il percorso centrale e stimolare l’elaborazione di tipo cognitivo, e non una valutazione di tipo emotivo.
Nonostante la sua grande popolarità il difetto principale di questo modello sta nell’affermare che la persuasione è possibile solo se i riceventi reagiscono cognitivamente al contenuto del messaggio. Questo presupposto non è sostenuto dalle più recenti scoperte in campo neuroscientifico e dagli studi di ricerca di Neuromarketing, i quali hanno messo in luce l’importanza dell’attivazione istintiva ed emotiva nella probabilità di persuasione.
La teoria della reattanza psicologica
Questa teoria sostiene che gli esseri umani sono profondamente motivati dal desiderio di ritenersi responsabili di sé stessi e liberi da regole e suggestioni altrui. Questo modello prevede che le persone, nel momento in cui ritengono che la loro libertà di scegliere sia soggetta ad attacchi e/o manipolazioni, proveranno il forte desiderio di reagire in modo tale da rimuovere questo tipo di pressioni.
Viene ritenuto che la reattanza raggiunga il suo picco durante il periodo adolescenziale, in quanto i teenager sono fortemente inclini all’indipendenza e formano convinzioni e atteggiamenti conflittuali rispetto alle figure genitoriali. Questo modello sostiene che i messaggi persuasivi espliciti generino più resistenza rispetto a quelli impliciti. È stato dimostrato come la reattanza ai messaggi persuasivi aumenti con l’età, e questo modello può contribuire a spiegare l’inefficacia delle campagne antifumo, che utilizzano un tono di voce genitoriale per ammonire sui pericoli del tabacco.
La fallacia principale di questo modello è però la convinzione che i messaggi persuasivi vengano sempre riconosciuti ed elaborati a livello cosciente. Questa ipotesi è stata chiaramente messa in discussione, e superata dalle evidenze emerse dagli studi di Neuromarketing, che hanno evidenziato la preponderanza all’elaborazione di questo tipo di messaggi da parte di strutture cerebrali che operano in maniera inconscia ed automatica.
L’effetto framing
Il modello dell’effetto framing si basa sull’idea che un messaggio possa essere inquadrato in due modi dal ricevente. Il messaggio può essere recepito come una perdita se il ricevente non agisce/acquista, oppure come un guadagno se il ricevente accetta di agire/acquistare.
I frame di perdita sono efficaci quando si cerca di sensibilizzare su rischi e perdite associate a una mancata azione: ad esempio, si rischia di uccidere qualcuno se si beve prima di mettersi alla guida, o si rischia un dissesto finanziario se non si ha una polizza assicurativa sulla casa e la si perde a causa di un incendio.
Gli esperimenti che hanno utilizzato questo approccio hanno messo in luce come i frame di perdita siano più utili a prevenire i comportamenti rischiosi piuttosto che a modificarli, suggerendo che questo effetto potrebbe avere breve durata. Le ricerche di Neuromarketing hanno messo in luce come i frame di perdita siano più efficaci dei frame di guadagno, a causa del ruolo svolto da una particolare area del cervello definita cervello primitivo, preposta all’elaborazione di risposte emotive ed istintive.
Il modello dei due cervelli di Kahneman
Questa teoria è stata resa popolare dallo psicologo Daniel Kahneman nel suo libro di successo Pensieri lenti e veloci, con il quale ha vinto il Nobel per l’economia. Secondo Kahneman l’essere umano attinge regolarmente a due sistemi decisionali che hanno priorità diverse, se non opposte:
- Il Sistema 1 opera in maniera automatica e inconscia, richiede scarse risorse di calcolo, ed è la parte più primitiva del cervello.
- Il Sistema 2 è quella deputata all’intenzionalità ed è la parte del cervello che da un punto di vista evolutivo si è sviluppata più recentemente. Quest’area , si attiva durante i processi coscienti ed ha accesso a maggiori risorse cognitive per fissare obiettivi e calcolare le conseguenze delle nostre decisioni.
Secondo Kahneman il Sistema 1, la parte primitiva, governa la maggior parte delle nostre decisioni. Il Neuromarketing appoggia il modello dei due cervelli di Kahneman, ed espande e arricchisce il modello dei due sistemi.
Il neuromarketing e il modello della dominanza primitiva
Sebbene i confini anatomici di ciascun sistema siano tuttora oggetto di dibattito tra i neuroscienziati, la loro esistenza è pienamente accettata nella comunità neuroscientifica e del neuromarketing.
Il Sistema 1 viene definito come cervello primitivo, mentre il Sistema 2 viene definito come cervello razionale. Evidenze neuroscientifiche hanno dimostrato come il cervello primitivo domina il processo persuasivo, governando le nostre decisioni. Queste differenze fondamentali tra cervello primitivo e razionale vanno ricercate nel ruolo che queste strutture hanno avuto nell’evoluzione dell’essere umano.
La teoria del cervello tripartito
Nell’arco di migliaia di anni di evoluzione il cervello umano ha subito dei cambiamenti per adattarsi alle sfide dell’ambiente esterno e rispondere in maniera ottimale alle esigenze di sopravvivenza dell’uomo. Questa evoluzione, a livello neurofisiologico, ha portato alla formazione di “più cervelli”.
Le tecniche di neuroimaging, strumenti chiave del Neuromarketing, hanno permesso di evidenziare nel cervello la presenza di tre aree ben distinte che influenzano differentemente i processi decisionali dell’uomo. Il neuroscienziato Paul D. MacLean ha elaborato un modello della struttura e dell’evoluzione dell’encefalo, descrivendolo come “Triune Brain” (cervello uno e trino), in quanto vi ha individuato tre formazioni anatomiche e funzionali principali, che nel corso dell’evoluzione si sono sovrapposte ed integrate. Queste tre formazioni sono state denominate cervello rettiliano (Protorettiliano, R-complex), mammaliano antico (Paleomammaliano, Sistema Limbico) e mammaliano recente (Neomammaliano).
- Il cervello rettiliano: rappresenta il centro fondamentale del sistema nervoso ed è costituito dalla parte superiore del midollo spinale, da parti del mesencefalo, dal diencefalo e dai gangli della base. Secondo MacLean il cervello di tipo rettiliano che si trova nei mammiferi è fondamentale per le forme di comportamento più arcaiche stabilite geneticamente, come scegliere il luogo dove abitare, prendere possesso del territorio, impegnarsi in vari tipi di comportamenti dimostrativi (ad es.: i rituali di accoppiamento), cacciare, ritornare alla propria dimora, accoppiarsi, subire l’imprinting, formare gerarchie sociali e scegliere i capi.
- Il cervello mammalliano antico, o sistema limbico: rappresenta un progresso dell’evoluzione del sistema nervoso perché è un dispositivo che fornisce mezzi migliori per affrontare l’ambiente agli animali che ne dispongono. Parti di esso sono responsabili di attività primarie correlate al nutrimento ed il sesso, altre con le emozioni e i sentimenti, ed altre ancora collegano i messaggi provenienti dal mondo esterno con quelli endogeni. Un altro modo di concepire il cervello mammalliano antico è vederlo come inibitore del cervello rettiliano. Osservazioni sperimentali hanno notato come la stimolazione del sistema limbico spesso inibisce comportamenti sessualmente disinibiti o violenti, mentre lesioni in esso spesso portano a liberare questo tipo di comportamenti.
- Il cervello neomammaliano, o neocorteccia: a livello umano è la sede del linguaggio ed in generale di quei comportamenti che permettono ad una persona di affrontare situazioni nuove ed inaspettate. L’abilità di creare immagini mentali del futuro risiede nel cervello neomammaliano. È una delle strutture nervose più studiate, ma allo stesso tempo una delle meno conosciute. La neocorteccia è la vera responsabile del pensiero cosciente: è infatti la sede dell’autocoscienza, delle concezioni dello spazio e del tempo, delle connessioni di causalità e di costanza.
Sebbene il modello del cervello tripartito sia un modello in parte superato, è tuttora in grado di descrivere bene la natura evoluzionistica dello sviluppo del nostro cervello e ancora oggi influenza molte teorie psicologiche. Nella comunità del Neuromarketing, cervello rettiliano e cervello mammaliano antico vengono considerati nel loro insieme con il termine di cervello primitivo, mentre alle aree del cervello neomammaliano si fa riferimento con il termine di cervello razionale.
L’effetto ascendente della persuasione
Le ricerche e i case study compiuti negli ultimi vent’anni da Christophe Morin e Patrick Renvoisé, pionieri del Neuromarketing, hanno dimostrato come i messaggi persuasivi non funzionano se non influenzano innanzitutto il cervello primitivo.
Le evidenze da loro raccolte sostengono il modello dei due cervelli di Kahneman, secondo cui il cervello primitivo ha dominio sul cervello razionale, e hanno evidenziato che se un messaggio è adatto al cervello primitivo, si irradia rapidamente verso le sezioni superiori del cervello razionale, dove le informazioni vengono elaborate usando il pensiero critico e la logica.
Inoltre gli studi di Neuromarketing hanno dimostrato che i messaggi persuasivi efficaci catturano in primo luogo il cervello primitivo, e solo dopo convincono il cervello razionale. Questo processo di elaborazione dei messaggi persuasivi, dove è necessario l’attivazione di entrambi i cervelli partendo dal primitivo per poi arrivare al razionale, è stato chiamato “effetto ascendente della persuasione”.
Secondo il Neuromarketing, quindi, il motivo per cui molti messaggi persuasivi non risultano efficaci è perchè non sono in grado di stimolare questo effetto ascendente a partire dal cervello primitivo o, nei casi peggiori, cercano di fare appello inizialmente e soprattutto al cervello razionale.
Il neuromarketing come leva competitiva
È ampiamente risaputo dagli addetti ai lavori che le ricerche di marketing tradizionali non sempre raggiungono i loro obiettivi, soprattutto se si tratta di misurare gli effetti persuasivi dei messaggi pubblicitari. I modelli tradizionali degli ultimi quarant’anni si sono rivelati inefficaci a prevedere, in maniera scientificamente attendibile, l’efficacia di una comunicazione persuasiva rispetto ad un’altra.
I progressi delle neuroscienze degli ultimi vent’anni sono riusciti a fornire un solido supporto alla disciplina, e il Neuromarketing ha messo in luce degli aspetti fondamentali del funzionamento cerebrale in risposta agli stimoli persuasivi. Ad oggi sappiamo con certezza che, nella creazione di un messaggio persuasivo efficace, il modello di riferimento più attendibile è quello dell’effetto ascendente della persuasione. Questo significa che quando andiamo a creare un messaggio persuasivo, è fondamentale riuscire a stimolare la parte più istintiva ed emotiva dell’essere umano (il cervello primitivo).
Le pratiche di Neuromarketing sono focalizzate appunto sulla stimolazione del cervello primitivo, al fine di attivare l’effetto ascendente della persuasione, e far arrivare chiaramente il messaggio al cervello razionale. Queste pratiche sono spendibili ed efficaci alle più svariate attività di marketing: dalla creazione di un messaggio radiofonico, al copy di un annuncio su Google Search, dalla Conversion Rate Optimization fino alla creazione di pagine web in grado di garantire una User Experience impeccabile, e anche nell’ideazione di una Brand Experience indimenticabile.
Non c’è attività, legata al mondo del marketing in generale, che non possa trarre giovamento dalle più recenti ricerche di Neuromarketing. Sono molti gli studiosi, infatti, che ritengono l’integrazione di metodi neuroscientifici nella ricerca pubblicitaria uno degli eventi più significativi nella ricerca sui consumatori degli ultimi cinquant’anni.
Nei prossimi articoli andremo ad approfondire il tema del Neuromarketing e le sue varie applicazioni.
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